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lunedì 5 marzo 2007

La corteccia cerebrale può riacquisire plasticità anche da adulti: arriva da Pisa la scoperta!

cervello Il cervello degli adulti non ha la stessa plasticità di una mente giovane. Ma ora gli scienziati del Cnr di Pisa hanno identificato un meccanismo molecolare che potrebbe restituire quella duttilità persa nel tempo. Il team dell’istituto di neuroscienze ha applicato la scoperta su cavie di laboratorio. Con risultati sorprendenti: i ricercatori italiani sono riusciti a ridare alla corteccia visiva di topi adulti la plasticità tipica di topolini giovani. Una scoperta che potrebbe avere grandi implicazioni nelle terapie riabilitative. E che sarà pubblicata domani sulla rivista Neuron.
Gli scienziati hanno lavorato sull’ipotesi che, nei neuroni adulti, la minore plasticità del cervello - cioè la capacità di modificare le connessioni neurali in risposta agli input esterni - dipenda da una ridotta capacità di trasformare gli stimoli ambientali in risposte biochimiche. Tale funzione ha sede nella corteccia cerebrale ma è maggiore nella fase di crescita. Sembra infatti che nei cervelli giovani le stimolazioni provenienti dall’esterno lascino una traccia, a livello di trascrizione dei geni, molto più forte di quanto avvenga da adulti.
Il periodo della crescita, quando le connessioni neuronali sono più duttili, è molto delicato. Per esempio, se nei primi anni di vita un bambino si trova sottoposto a stimoli visivi non adeguati, può accadere che la sua corteccia cerebrale non si sviluppi bene e che questo causi, di conseguenza, una riduzione della vista.
Il loro obiettivo, a questo punto, era invidivuare le differenze di plasticità. I ricercatori italiani hanno così confrontato in laboratorio la corteccia visiva di topolini giovani con quella di topi adulti. Ed hanno scoperto che nei primi, gli istoni - cioè le proteine che formano l’ossatura del Dna - sono più reattivi. Inoltre, sono modificabili da stimoli esterni, come un fascio di luce. Poiché queste modifiche influenzano l’attività dei geni, il team di Pisa ha identificato in esse la causa della maggiore o minore plasticità del cervello.
Per dimostrarlo, i ricercatori hanno provato a produrre delle modificazioni sugli istoni. E per farlo, hanno usato sui topi una sostanza, la tricostatina, che aumentando l’acetilazione degli istoni, provoca le stesse reazioni generate in una giovane mente da una stimolazione luminosa. Il risultato ha confermato la teoria: nei cervelli adulti trattati con tricostatina la plasticità della corteccia visiva è aumentata e i topi adulti si sono comportati come quelli in via di sviluppo.
"Il nostro studio - ha spiegato Tommaso Pizzorusso, che ha diretto il lavoro dell’équipe di ricercatori - ha individuato un meccanismo per ripristinare negli adulti la plasticità di una mente giovane". Ma c’è di più: questo sistema potrebbe essere applicabile in generale e non solo alla corteccia visiva: "Trattamenti di questo tipo potrebbero essere usati nelle patologie dove è necessario ottenere un aumento della plasticità sinaptica per favorire l’azione di terapie riabilitative". "Ma - avverte Pizzorosso - è opportuno ricordare che le alterazioni del controllo della trascrizione del Dna non sono prive di possibili effetti negativi. Occorrerà quindi individuare bene quali strumenti utilizzare per sfruttare al meglio la nuova possibilità".


martedì 20 febbraio 2007

Eutanasia: crocevia della coscienza medica

Tra tutti gli articoli e i pareri che mi è capitato di leggere in merito al tema dell'eutanasia, quello che ho scelto di riportare oggi affronta il perchè questa pratica venga richiesta più frequentemente da paziente affetti da disturbi neuropsichiatrici, sottolinenado la necessità di comprendere quando e come queste persone sono in grado di esercitare "il libero arbitrio".
Ho scelto di non riportare immagini nell'intento di non spettacolizzare un tema che riguarda la delicata condizione esistenziale dei malati soprattutto e delle persone a loro vicino.

FRANCESCO MONACO, UNIVERSITA’ DI NOVARA
C’ è sempre stato un rapporto intenso e ambiguo tra le neuroscienze e l’eutanasia, rapporto che il recente (ma non unico) caso di Piergiorgo Welby ha riproposto all’opinione pubblica in maniera dirompente. Paradossalmente, infatti, sia la richiesta di eutanasia da parte dei pazienti sia le proposte di legalizzazione di tale pratica in soggetti con disturbi neuropsichiatrici sono risultate molto più frequenti che non per altri tipi di patologie.
Da una parte, infatti, a richiedere in maniera angosciante la cessazione delle sofferenze sono individui che hanno perduto il controllo totale dei movimenti agli arti (tetraplegia) e che conservano tuttavia intatta la coscienza. Questi pazienti potrebbero essere definiti quasi dei «morti viventi», avendo un corpo pressoché morto al di sotto del livello della lesione (solitamente cervicale) e un cervello, e quindi la sua mente, perfettamente integri. Dall’altra, esiste una quantità di soggetti, dei quali una parte in costante aumento a causa dell’allungarsi della vita, affetti da una situazione clinica opposta, ovvero da disturbi psichici devastanti o grave decadimento mentale (come per esempio l’Alzheimer), senza alterazioni particolari del movimento.Un sottogruppo di questa seconda popolazione è costituito da bambini con gravi lesioni cerebrali congenite oppure acquisite.Sia soggetti adulti che bambini con questi disturbi nel passato furono vittime di infami programmi di eutanasia attiva, come nel Terzo Reich. Appare pertanto opportuno che il dibattito sull’eutanasia sia affrontato tenendo conto di queste premesse e che il coinvolgimento delle neuroscienze nelle sue problematiche mediche ed etiche aiuti a chiarire un argomento lacerante.Il nodo della questione si trova, metaforicamente, nell’intersezione tra neurologia e filosofia, ovvero in quella nuova scienza, la «neurofilosofia», che sta sperimentando un forte sviluppo proprio grazie alle formidabili scoperte delle neuroscienze: portate ai loro estremi, pongono in discussione persino il dilemma millenario del «libero arbitrio». La preoccupazione è infatti che la comprensione dei meccanismi biologici del cervello possa minare le nostre credenze su di esso e sulla responsabilità morale. Si riattualizza pertanto il dualismo filosofico tra mondo «deterministico» (tutto è stabilito da Dio o dalla fisica) e «libertario» (tutto è casuale). Il dualismo non è lontano dall’argomento «eutanasia», perché questo è un capitolo del più vasto argomento che è la bioetica. Infatti, la questione fondamentale nel decidere se dichiarare legittima o no l’eutanasia è che in ogni caso si ha a che fare con i concetti mentali di «coscienza» e «libertà», entrambi interdipendenti. Se sulla scorta delle recenti ricerche delle neuroscienze cognitive, sostituiamo il termine «libertà» con quello di «controllo», forse sgombriamo il campo da preconcetti moralistici e inconcludenti e iniziamo a ragionare in maniera laica, aiutando l’individuo a scegliere con relativa serenità. Il «controllo» può rappresentare una nozione appropriata quale intermediaria tra la decisione e l’azione da una parte e la responsabilità dall’altra.In questa ottica l’eutanasia può essere attuata solo da chi esercita il completo controllo delle sue decisioni nel momento della scelta, e questo implica che la sua coscienza sia integra e nessuna delega o deroga è ammissibile.
In questo ambito si situa anche il discorso sul «testamento biologico». Come medico e come neurologo ritengo che l’eutanasia potrebbe essere applicabile a chi la richiede laddove sia pienamente cosciente. Sono invece contrario ad ogni forma di «soppressione del diverso», intendendo con questa definizione l’eutanasia delle persone con deficit cognitivi e/o psichici. Per questo condivido la presa di posizione dell’American Academy of Neurology, secondo cui «tutti i pazienti devono essere trattati con rispetto e compassione e ogni cura palliativa deve essere fornita a chiunque la necessiti e la richieda». L’Academy, così, parla in difesa di quella schiera di persone cognitivamente impedite, o vulnerabili, che sono più a rischio per la fascinazione della dolce morte.

martedì 13 febbraio 2007

I neuroni specchio: imitazione, empatia e molto altro

neuroni I neuroni specchio sono situati nella corteccia premotoria e nelle aree parietali inferiori che in parte coordinano movimento e percezione e inoltre nel lobo parietale posteriore, nel solco temporale superiore e nell'insula, regioni queste deputate alla comprensione dei sentimenti e alla capacità linguistica.
Ad essere sinceri sembra proprio che li utilizziamo per apprendere tutto: a partire dalla semplice imitazione che da piccoli insegna a camminare fino all'attribuzione di un significato più profondo a gesti ed espressioni che ci consentono di emozionarci.
I risultati che hanno dato un particolare rilievo alla scoperta dei neuroni specchio, risalgono a tempi recenti, quando nel 2005 Gallese e Rizzolatti hanno dimostrato che se ascoltiamo una frase che descrive una determinata azione, in noi viene elicitata la stessa area deputata ad eseguirla e che comporta l'attivazione dei neuroni specchio, come se in definitiva non ci fosse differenza tra il dire e il fare.
Inoltre sempre nel 2005 Iacoboni ha effettuato degli esperimenti in cui provava l'attivazione di gruppi di neuroni specchio differenti, in base allo sfondo emozionale legato all'immagine somministrata: lo stimolo era "l'avvicinamento del braccio" e il contesto all'interno del quale aspettare questo gesto si alternava tra una tavola imbandita ordinatamente e una invece caotica. Nel primo caso l'aspettativa era che la mano si muovesse per bere dalla tazza del tè, mentre nel secondo caso il movimento veniva collegato al gesto di sollevare la tazza per sparecchiare.
L'attivazione di gruppi differenti, sembra essere legata alla percezione delle intenzioni ed è proprio questa la caratteristica fondamentale attribuita ai neuroni specchio: la comprensione delle esperienze a partire dal nostro modo di percepire le espressioni altrui.
Quella dei neuroni specchio è un'area delle neuroscienze che costituisce un interesse particolare, soprattutto se consideriamo le conseguenze di una loro eventuale anomalia. L'incapacità di riconoscere le azioni degli altri, secondo alcuni, avrebbe alla base un difetto di questo gruppo neuronale che potrebbe spiegare l'assenza di risposta tipica dell'autismo.

lunedì 12 febbraio 2007

Alla scoperta dei nostri pensieri!

risonanza magneticaRoma - La neuroscienza leggerà nel pensiero, anzi direttamente nel cervello, come fosse un libro aperto o un codice da decifrare. È quello che sostengono John-Dylan Haynes, del Max Planck Institute for Human Cognitive and Brain Sciences di Lipsia, e un team di ricercatori giapponesi e inglesi, che hanno condotto uno studio pubblicato nei giorni scorsi su Current Biology.
"Le intenzioni riguardo alle attività future e programmate non risiedono in singoli neuroni, ma si codificano in un'intera area del cervello", ha affermato Hayes.Algoritmi complessi e un macchinario per la risonanza magnetica funzionale: è quanto basta per monitorare ed interpretare l'attività cerebrale che brulica nell'area anteriore della corteccia prefrontale del cervello, sede delle intenzioni (area verde, nell'immagine qui sotto). Assegnato un compito ad otto volontari, una scelta riguardo alla sottrazione o alla somma di due numeri, si è riusciti a leggere loro nella mente, individuando l'intenzione di sottrarre o addizionare. Ciò prima ancora che i numeri su cui operare venissero rivelati, prima ancora che l'intenzione si traducesse in azione, momento in cui l'attività cerebrale si sposta nella regione di cervello situata appena dietro a quella anteriore prefrontale (area in rosso nell'immagine).Basandosi sull'analisi dell'attività dell'area anteriore della corteccia prefrontale, infatti, i ricercatori hanno osservato come questa porzione di cervello si attivi rispettando dei pattern, degli schemi che si differenziano e ricorrono con regolarità, in base alle diverse intenzioni dei soggetti.
Dopo quaranta minuti di addestramento basato sulla multivariate pattern recognition (l'analisi e l'individuazione del variare di parametri nelle mappe cerebrali emerse dalle scansioni del cervello), i computer hanno imparato a riconoscere i diversi schemi di attività cerebrale, preconizzando le azioni messe in atto dai soggetti, con il 70 per cento di successo.Le neuroscienze intravedono sviluppi rivoluzionari per la loro attività. Haynes, intervistato da LiveScience, immagina con ironia un futuro in cui la multivariate pattern recognition possa applicarsi all'ambito della videoludica, per semplificarne e amplificarne l'esperienza di gioco (esperimento, peraltro, già messo in atto, seppure in ambito diverso). Pensare ad una figura plastica in cui si contorce uno snowboarder librandosi in volo, potrebbe risultare più gradevole che intrecciare le dita in combinazioni di tasti arbitrarie. Peccato che un macchinario per la risonanza magnetica funzionale non costi meno di due milioni di dollari.Ma la videoludica sembra un ambito di applicazione marginale, e più futuristico rispetto ad altri. Hayes pensa ad applicazioni nell'ambito della protesistica per le disabilità motorie, ambito già contaminato dalle neuroscienze, fra braccia bioniche e psicoscimmie robotizzate. Prospetta inoltre interfacce neurali capaci di ricevere comandi direttamente dal cervello, obiettivo già concretizzatosi in tecnologie dai nomi più o meno evocativi, quali Brain Machine Interface, Kokorogatari o BrainGate.

Raccomanda cautela, Hayes: siamo ancora lontani dal leggere nel pensiero. Due gli ordini delle questioni che si frappongono alle applicazioni più fantascientifiche.A livello di macchinari, oltre al costo non indifferente, che potrebbe limitarne le implementazioni, emerge un problema di ordine logistico: esplorare porzioni meno superficiali del cervello è ancora impossibile senza danneggiare l'individuo che si sottopone allo scanning. A livello di risultati, si è riusciti a prevedere il comportamento di soggetti messi di fronte a compiti che comportano una scelta si/no ma ben diverso sarà interpretare le intenzioni più complesse, distinguere tra pensieri che l'individuo concretizzerà in azioni e pensieri effimeri, che lo sfiorano appena. I pattern da individuare e analizzare, nel caso di operazioni mentali complesse, sono combinazioni di variabili complicatissime, e richiederebbero un addestramento dei software che si spingerebbe decisamente oltre i quaranta minuti.Ma la scienza procede con guizzi repentini, ed è opportuno porsi con anticipo le questioni etiche che potrebbero schiudersi, avverte Hayes in un'intervista rilasciata a Guardian Unlimited.

Già ci si scaglia negli USA contro macchine della verità basate sulla risonanza magnetica, capaci di far trapelare onestà e menzogna in sede di tribunale. Ma i risultati dello studio del gruppo di Hayes potrebbero sfociare in un futuro ancor più tetro, à la Minority Report. Gli scanner potrebbero individuare i crimini prima del loro compimento, come in parte già avviene nel Regno Unito. Si configura in questo modo una società della sorveglianza delle intenzioni, un distopico panopticon cerebrale.