Tra tutti gli articoli e i pareri che mi è capitato di leggere in merito al tema dell'eutanasia, quello che ho scelto di riportare oggi affronta il perchè questa pratica venga richiesta più frequentemente da paziente affetti da disturbi neuropsichiatrici, sottolinenado la necessità di comprendere quando e come queste persone sono in grado di esercitare "il libero arbitrio".
Ho scelto di non riportare immagini nell'intento di non spettacolizzare un tema che riguarda la delicata condizione esistenziale dei malati soprattutto e delle persone a loro vicino.
FRANCESCO MONACO, UNIVERSITA’ DI NOVARA
C’ è sempre stato un rapporto intenso e ambiguo tra le neuroscienze e l’eutanasia, rapporto che il recente (ma non unico) caso di Piergiorgo Welby ha riproposto all’opinione pubblica in maniera dirompente. Paradossalmente, infatti, sia la richiesta di eutanasia da parte dei pazienti sia le proposte di legalizzazione di tale pratica in soggetti con disturbi neuropsichiatrici sono risultate molto più frequenti che non per altri tipi di patologie.
Da una parte, infatti, a richiedere in maniera angosciante la cessazione delle sofferenze sono individui che hanno perduto il controllo totale dei movimenti agli arti (tetraplegia) e che conservano tuttavia intatta la coscienza. Questi pazienti potrebbero essere definiti quasi dei «morti viventi», avendo un corpo pressoché morto al di sotto del livello della lesione (solitamente cervicale) e un cervello, e quindi la sua mente, perfettamente integri. Dall’altra, esiste una quantità di soggetti, dei quali una parte in costante aumento a causa dell’allungarsi della vita, affetti da una situazione clinica opposta, ovvero da disturbi psichici devastanti o grave decadimento mentale (come per esempio l’Alzheimer), senza alterazioni particolari del movimento.Un sottogruppo di questa seconda popolazione è costituito da bambini con gravi lesioni cerebrali congenite oppure acquisite.Sia soggetti adulti che bambini con questi disturbi nel passato furono vittime di infami programmi di eutanasia attiva, come nel Terzo Reich. Appare pertanto opportuno che il dibattito sull’eutanasia sia affrontato tenendo conto di queste premesse e che il coinvolgimento delle neuroscienze nelle sue problematiche mediche ed etiche aiuti a chiarire un argomento lacerante.Il nodo della questione si trova, metaforicamente, nell’intersezione tra neurologia e filosofia, ovvero in quella nuova scienza, la «neurofilosofia», che sta sperimentando un forte sviluppo proprio grazie alle formidabili scoperte delle neuroscienze: portate ai loro estremi, pongono in discussione persino il dilemma millenario del «libero arbitrio». La preoccupazione è infatti che la comprensione dei meccanismi biologici del cervello possa minare le nostre credenze su di esso e sulla responsabilità morale. Si riattualizza pertanto il dualismo filosofico tra mondo «deterministico» (tutto è stabilito da Dio o dalla fisica) e «libertario» (tutto è casuale). Il dualismo non è lontano dall’argomento «eutanasia», perché questo è un capitolo del più vasto argomento che è la bioetica. Infatti, la questione fondamentale nel decidere se dichiarare legittima o no l’eutanasia è che in ogni caso si ha a che fare con i concetti mentali di «coscienza» e «libertà», entrambi interdipendenti. Se sulla scorta delle recenti ricerche delle neuroscienze cognitive, sostituiamo il termine «libertà» con quello di «controllo», forse sgombriamo il campo da preconcetti moralistici e inconcludenti e iniziamo a ragionare in maniera laica, aiutando l’individuo a scegliere con relativa serenità. Il «controllo» può rappresentare una nozione appropriata quale intermediaria tra la decisione e l’azione da una parte e la responsabilità dall’altra.In questa ottica l’eutanasia può essere attuata solo da chi esercita il completo controllo delle sue decisioni nel momento della scelta, e questo implica che la sua coscienza sia integra e nessuna delega o deroga è ammissibile.
In questo ambito si situa anche il discorso sul «testamento biologico». Come medico e come neurologo ritengo che l’eutanasia potrebbe essere applicabile a chi la richiede laddove sia pienamente cosciente. Sono invece contrario ad ogni forma di «soppressione del diverso», intendendo con questa definizione l’eutanasia delle persone con deficit cognitivi e/o psichici. Per questo condivido la presa di posizione dell’American Academy of Neurology, secondo cui «tutti i pazienti devono essere trattati con rispetto e compassione e ogni cura palliativa deve essere fornita a chiunque la necessiti e la richieda». L’Academy, così, parla in difesa di quella schiera di persone cognitivamente impedite, o vulnerabili, che sono più a rischio per la fascinazione della dolce morte.
Fonte: La Stampa.it
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